Succede sempre così. Accade che in ogni viaggio, solitamente in quelli dell’anima, ma sovente anche in quelli fatti di asfalto e curve, si arriva ad un punto che rappresenta un varco spazio-tempo, l’annullamento del presente e della modernità, una cesura netta che ci proietta in una dimensione diversa, dimenticata, ma al contempo reale e oggettiva. Si potrebbe essere ovunque, il luogo diventa fonte di parallelismi, i paesaggi si fondono e si confondono tra gli antipodi.
E’ accaduto a me e a Danilo la scorsa domenica, durante la peregrinazione in un Abruzzo-Patagonia che accomuna le nostre giovinezze. Partiti di mezzo mattino, una giornata tempesta alle spalle, notte di pioggia e incedere di freddi venti invernali, abbiamo trovato il nostro varco al casello di Tagliacozzo. L’Abruzzo comincia pochi chilometri prima, lasciato Arsoli sulla destra; case rapprese su costoni morfologicamente quasi sgraziati, in quella brama di conquista territoriale che ci contraddistingue da millenni.
Ma subito tutto si confonde; si perde la Statale Tiburtina, che qui è SS 5 Quater, diventa percorso alternativo, labirinto, possibilità, destino. Si inasprisce la toponomastica: Luppa, Guardia d’Orlando, Roccacerro, Santa Maria d’Oriente, Cappadocia; nomi arditi, evocazione di antica guerra, mai finita. E’ severo l’Abruzzo. Devi entrare con rispetto ed umiltà. Le correnti cambiano come nell’Atlantico sullo spartiacque dei Simbruini. Sole, vento e grandine si alternano come in un possente gesto creativo, l’incipit del mondo.
In un attimo siamo persi anche noi, macchine fotografiche al collo, sferzati da raffiche di freddo, alla ricerca della vecchia roccaforte. Improvvisamente ecco il Golgota, le croci, l’albero spoglio, la cappella votiva; il tempo inizia a confondersi, gioca con i millenni. La geografia diventa un confuso tumulto di nomi e rimandi storici. Il cielo è livido, cavalli autoctoni ci osservano, assopiti nel loro freddo cronico.
Inizia a piovere, le raffiche spostano orizzontalmente le gocce, a noi sembra di espiare il peccato originale.
Ci ritroviamo a Tagliacozzo, fra contrasti di luce e architetture anni ’10 e ’20, stile liberty appena abbozzato mi dice Danilo, la piazza centrale rimanda a facciate e costruzioni simili a quelle della Val di Fassa; adesso piove con il sole. Sul cielo plumbeo si stacca l’iride dell’arcobaleno, arco completo, raro a vedersi.
Entriamo nel Fucino di soppiatto; altopiano ed antico lago, terra di confine della Marsica, ciò che rimane di antiche dominazioni romane ai piedi del Cerro-Velino, imperatore incontrastato. Il sole irradia la piana, intorno le nuvole giocano con i crinali, svelando polveri di neve ed indistinti profili. Il controluce dalla rocca del Castello Orsini è accecante. Le atmosfere si contrappongono, le correnti si incalzano, il vento sferza, respinge. Eccoci, al cospetto di un cielo livido, al giudizio universale. L’aria è di cristallo, profumi ancestrali di terra umida e legna arsa, sentori di muffa di cortile e di aia.
Ci aggiriamo per i vicoli lastricati, il tempo ha perso ogni connotazione, l’ombra possente della rocca rimanda sensazioni di avvincenti battaglie e dominazioni, sottolineate dalle case in rovina. E’ la nostra Sarajevo. In lontananza i raggi del sole bucano le nuvole e proiettano coni di luce sul suolo, scansionano la fitta rete ortogonale delle strade Marsicane, che ora è il Far West, ora la Patagonia, ora la Tundra.
Siamo niente, annullati dagli elementi, dal taglio del vento, dal rigore dell’inverno che si fa breccia in un prolungato autunno. Il sole lento muore, lascia sulla sua docile orbita sfumature e colori ocra e rosa. Plasma il mare candido della neve sui costoni, lo veste di figure svolazzanti e leggere. Guardiamo attoniti trasformarsi lo spettro della luce, fino alla fredda penombra azzurro cenere, confine della notte sulla montagna. Altrove il rosso fuoco, tra gli eterei baffi nuvolosi delle ultime brume.
Rientriamo, convinti di aver percorso milioni di chilometri verso l’isola misteriosa, come nel racconto di Jules Verne.
Gianluca