La sveglia suona presto in questa atipica mattina di gennaio; sono le 6.45, l’aria di Roma è fredda, almeno non piove, anzi è una radiosa giornata invernale.
Accanto al letto la valigia ripiena dei vestiti per questi 21 giorni in Messico. A corredo, borsa della macchina fotografica e tracolla per il computer ed altre amenità.
Esco dopo la abitudinaria tazza di caffellatte per imbucarmi sul trenino Roma-Fiumicino. Sopra molte persone, facce stanche, annoiate dalla quotidianità. Un signore seduto legge un libro ad occhi chiusi. Dorme. Ma la mano è lì che tiene il volume ben verticale; mistero. Giovani con le cuffie e la musica isolante, una ragazza vestita anni ’70 ripassa alcune arcane informazioni su un documento probabilmente di lavoro; è molto attenta, come se dovesse di lì a poco affrontare un esame importante.
Il resto sono io, assonnato, agitato ed in balia dei pensieri. Villa Bonelli… Muratella… Magliana… Fiera di Roma… Parco Leonardo… Fiumicino Aeroporto. Terminal A, lunghi nastri trasportatori, un aeroporto deserto, in preda al sonno pure lui. Faccio un check-in solitario; i pensieri sono ancora lì, anche quando mi girano come un pedalino al controllo sicurezza, come fossi un pericoloso terrorista. Mi merito una colazione di rinforzo; intorno lento comincia il disgelo. Le serrande del duty-free si alzano sferragliando, con poca voglia. Servizi favolosi: giacche, borse, profumi e sfarzo da salotto bene intriso di opulenza e ricchezza, ma non c’è una farmacia, forse l’unica cosa utile ad un viaggiatore che ha dimenticato l’ultima cosa… Non mi oppongo e mi ritrovo con il naso incollato al finestrone del gate A12, guardo decolli ed atterraggi, osservo i tecnici che nel freddo mattutino scrutano bulloni, picchiettano motori, controllano carrelli, flaps, alettoni, parti meccaniche di un bestione che mi catapulterà in men che non si dica a Parigi. Siamo in pochi: alcuni solitari come me, che guadano fuori e magari sognano, l’immancabile famiglia giapponese, con i bambini impegnati in un ossessionante rapporto tecnologico con videocamere e fotocamere; un gruppetto di calabresi con ventimila figli, tutti che schiamazzano gareggiando a chi indovina l’aereo giusto.
Sedile 14A, dove A sta per finestrino, per fortuna. Odio andare in aereo a centro cabina, è inutile. Non dovrebbero esistere posti oltre a quelli del finestrino; altrimenti il volo diventa una cosa insignificante, un teletrasporto tra punto A e punto B.
Stacchiamo i carrelli con un po’ di ritardo. Rubo qualche foto nei primi istanti del decollo, anche se le raccomandazioni sono di non usare apparecchi di sorta, rimanere immobili ed impassibili in uno dei momenti più emozionanti, quando è tutto un fremito di lamiere, un rombo di turbine, scricchiolare di fusoliera; le forze gravitazionali ti incollano al sedile, manca un po’ di fiato, lo stomaco dov’è… poi la magia: voliamo. Nei primi 20 minuti penso, poi smetto di pensare ed inizio a guardare… Perché da lontano cominciano a delinearsi profili, creste, isole. L’aria è di cristallo, il mare carta da zucchero del presepe.
A 25.000 piedi passiamo sopra l’Isola d’Elba e Capraia. Sulla sponda opposta una Corsica imperiosa, colma di neve sulle sue altissime quote interne. I monti sfilano di lato, lenti, immensi, in una affascinante coreografia geografica che mette i brividi. La prua adesso è rivolta sicura verso Genova; alle sue spalle un corrugato ed inestricabile susseguirsi di montagne e rilievi, ombre e luci che si contrappongono sotto una uniforme coperta di neve.
L’ultima emozione dell’Italia me la regala il Monte Bianco, enorme, imponente. Ne riconosco le forme: Grand Jorasses, Aguille Du Midi, il Dente del Gigante, inconfondibile. L’aria è così tersa che si scorge il Rifugio Torino al limitare del Mar de Glace. Il ghiacciaio protende la sua lingua fino a Chamonix, poi sfuma nei pascoli del fondovalle. Inizia un mare compatto di nuvole, nebbie basse a strati, dense. Ed il terreno sparisce fino alle porte di Parigi, dove la città guadagna nuovamente il suo cielo. Vedo la Torre Eiffel, avvolta nelle foschie, controsole. Viratone a 180 gradi sul centro di Parigi e in un attimo siamo giù. Atterraggio morbido, rombo di freno aerodinamico, din… “il comandante ed il suo equipaggio sono felici di darvi il benvenuto…”.
L’aeroporto Charles De Gaulle è immenso, bellissimo, razionale, funzionale, pieno di servizi igienici. Forse i Francesi fanno molta pipì. Vago per corridoi lunghi chilometri, silenziosi e disabitati, in una atmosfera da film Gattaca, dove ogni tanto c’è il rombo e la scia di un decollo. Sono nella sezione transiti, ma devo ugualmente farmi radiografare, analizzare, per paura che trasporti qualche sostanza extraterrestre. Gli addetti alla sicurezza sono meticolosi e molto rigidi, non c’è l’ombra di un sorriso. Ci si toglie cinta e scarpe, ogni cosa in un vassoio distinto; il computer è a parte e sta due minuti sotto i raggi X. Neanche alla Apple sanno così bene cosa c’è all’interno. Ricompongo il puzzle di oggetti, una sudata estrema. Mi preparo ad affrontare le tre ore di scalo. Temporeggio ad un bar cafè, seduto ad un tavolino alto 20cm, sediolina annessa, sembrano i giochi dei bambini all’asilo. Praticamente sono seduto per terra. Ah… il design francese. Compro un trancio di pizza di un mesetto prima, il microonde gli ridà (si fa per dire) miracolosamente vita ed aspetto quasi commestibile. Scopro un angolo di aeroporto fantastico: un finestrone vetro e acciaio grande come un campo da tennis, esposto e scaldato dal sole, che affaccia direttamente sulle piste di decollo. Sparse nella sala enormi poltrone fantozziane su cui sbragarsi a piacimento e osservare lo spettacolo. Il concetto di aeroporto qui è perfettamente chiaro.
Sono al limite della fase REM, quando l’altoparlante annuncia l’imbarco, un’ora prima della partenza. Per imbottire di gente un Boeing 777-200 ce ne vuole di tempo. Doppio colpo di fortuna: sedile 39A, subito dietro l’ala sinistra. I due posti al mio fianco sono ancora liberi a cinque minuti prima del decollo, ma è fugace illusione: una coppia di signori polacchi prende posto. Niente dormitone a sedili uniti…
Si va. La rincorsa in pista dura molto. Come fa a volare un coso così pesante? I motori spingono come ossessi, a piena manetta. Stacchiamo, parte il cronometro: -11.45 ore di volo.
Subito attacca l’industria del catering, carrelli, hostess e steward. E’ un miagolare di mercì, por favor, occhi dolci e sorrisi. Servono subito il pranzo (alle 17.00…). Si sprigionano così nella carlinga quegli irriproducibili odori del cibo da aereo, misto di pollo, zuppa, peperoni e sughetto. Infatti è pollo, alla fricassea, se vogliamo anche gradevole.
E qui comincia la saga, il classico dei classici, che a mio parere viene creato artificialmente dal pilota al momento di servire i vassoi: le turbolenze. Siamo sul Canale della Manica, sotto c’è un gregge di pecore a forma di nuvole, costante e smisurato. Il sole è già basso sull’orizzonte ed è come sbiancato, pallido. E noi balliamo, poghiamo, a scossoni decisi; il vinello tracima dal micro bicchierino, lo stomaco non approva. Calma, ora finisce, è tutto il solito scherzo infame… Riusciamo a portare a termine l’arduo compito di nutrirci e come per magia, tra un boccone di zucchine trifolate ghiacciate ed una fettina di salmone affumicato le turbolenze terminano così come erano giunte. Un caffè “acquacioccia” riesce a malapena a riordinare lo stomaco.
Il sole non riesce a tramontare, lo rincorriamo nel suo nascondersi, viaggiando verso ovest, incontro al tempo. Inizia così un tramonto infinito, che durerà 7 ore, una cosa stranissima, da 80° parallelo. Siamo a 35.000 piedi, circa 10.000 metri di altitudine e fuori fa -58° Celsius. Voliamo contro le correnti a getto di alta quota, che spirano constanti verso est e per questo la velocità non supera gli 850Km orari. Al ritorno andremo più veloci…
Mi assale un po’ di noia, sonno neanche a parlarne; il panorama è costituito da un velo lattiginoso di nuvole compatte e non c’è un film decente da guardare dei 20 canali del circuito interno.
Quindi il pensiero ha il sopravvento: il pensiero di me che viaggio in solitaria, per la prima volta verso un lavoro ed una responsabilità in una città praticamente sconosciuta. Abitudini diverse, tempi differenti, per fortuna a casa di Alejandro, dove cureremo tutti gli aspetti di un progetto grafico interessante, che riguarda la pubblicazione di due libri sull’India, fotografie d’autore (sue) e storia. E’ tutto molto strano, mi perdo un po’ in questo errare di pensiero. Ma sento anche lo spessore di un’esperienza forte e formativa, lontana dalle ossessioni e dalle depressioni della mia città, libera di esplorare nuova creatività.
Mi assopisco, intorpidito e infastidito dall’aria secca della cabina. Fuori dell’oblò il rosso del tramonto è ancora lì, i colori sono più spenti, le nuvole grigio-bluastro sono uno spettro silenzioso.
Le rotte oceaniche sono strane. Per un arcano concetto di trigonometria sferica la strada più breve non è quella diretta che congiunge A e B, ma una curva che arriva a lambire prima l’Islanda, poi le coste della Groenlandia, per poi tuffarsi nella Baia di Hudson e ridiscendere nell’Alaska, Canada centrale, Arkansas, Texas ed infine Città del Messico. Quella poca luce che rimane rende onirica la visione del grande nord, dei fiordi pieni di ghiaccio, del pak frastagliato come un vetro andato in frantumi. A guardare tutto quel gelo, mi assale un brivido di freddo riflesso. E’ un paesaggio mozzafiato, di una solitudine estrema, inospitale. Immagino pinguini e foche che scorrazzano, il grande orso bianco che gli da la caccia, come nei documentari in televisione. In lontananza persi oramai nell’indaco i rilievi dell’Ontario, che fa da protettore ai grandi laghi del Michigan e del Minnesota, nomi e luoghi altisonanti, spazi enormi.
Fa buio, finalmente ed entriamo nello Stato del Messico; mancano poco meno di due ore all’atterraggio, ma sotto lo spettacolo continua: le grandi città americane, Kansas City, Oklahoma City, Dallas, Austin, in lontananza Houston, sono un intricato tappeto luminoso, chiazze brillanti nell’oscurità. Città a pianta ortogonale, dove non esiste una curva, piatte, nel deserto.
Sulle alture di Monterrey, riprende la nuvolosità. A 30 minuti esatti iniziamo la discesa, quella debole sensazione di vuoti d’aria, che ci porta da 11.000 a 2200 metri di altitudine. Città del Messico appare all’improvviso, tra le nuvole che sfilacciano. E’ immensa. Spunta da dietro una corona di monti, come fosse affogata nel cratere di un vulcano. E la sua luce è lava ribollente. Entriamo da sud, poi una virata stretta a destra porta lo sguardo sulla miriade complessa di luci e strade. Il pilota fa scendere l’oscurità nella cabina ed il mio cervello cancella il rombo dei motori, il sibilo del vento, gli scricchiolii. Mi ritrovo in una scena di Blade Runner: sotto ci sono infinite luci, torri, palazzi, piazze, file interminabili di luci del traffico; un pulsare illimitato di energia. Intorno le luci intermittenti degli altri aerei in coda sul sentiero di avvicinamento per l’atterraggio. Sembrano astronavi, senza rumore volteggiano. Attraversiamo il mare di luce da una parte all’altra, poi una imponente virata a sinistra sposta la gravita, sembra di cadere dal finestrino, il profilo dell’ala taglia quello delle strade, le luci corrono sempre più veloci, scorgo la pista che si allinea. Ci siamo, scossoni, accelerate, sibili, siamo tra i palazzi e le case, forse atterriamo in un autostrada…. No ecco le strisce bianche rassicuranti della pista, liscia e nera. Giù.
Benvenuto a Città del Messico.
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leggere il tuo diario di bordo mi ha tranquillizzato molto…mi piace come scrivi, come descrivi…
sto prenotando un viaggio per baya california !!
continuerò a seguirti..
gloria