Il buio e poco oltre
Isola di Capraia. Anno 2010 di nostra vita. Gli assenti hanno sempre torto; quindi sono tornato.
Nella notte da falene, sulla strada per il belvedere del castello, il vento di ponente, come un drappo di velluto nero, porta profumi di elicriso, liquirizia e rosmarino. In basso l’onda lunga si infrange sulla scogliera e rimanda soffi di salsedine.
Ricorda una visione da romanzo di Dumas, in realtà è semplicemente un momento centrale della vacanza, illuminato di sguincio da una luna color fieno, appoggiata sulla spalla del profilo dell’Isola d’Elba, visibile a sud come un disegno onirico.
Ci muoviamo silenziosi, come attori su un palco non ancora illuminato dalle luci di scena, a pochi istanti dall’inizio dello spettacolo; io, Cristian, Antonello, Roberta, Cecilia. Seguiamo la traccia evanescente di un aereo che attraversa la costellazione del Cigno; poi ciascuno torna a specchiarsi nel cono argenteo del riflesso lunare sulla superficie del braccio di mare che ci separa dalla terra ferma.
Ognuno con i propri pensieri.
Ognuno con i propri umori.
Capraia ci avvolge così, con la sua serenità malinconica; con i suoi cambi repentini da Maestrale a Grecale; con la sua velata ostilità, o per lo meno quella di alcuni suoi abitanti.
Presenze
Il sentiero per le rovine della ex colonia penale inizia dietro la chiesa, nascosto al sole e allo sguardo. La luce radente della sera getta ombre ovunque; i fantasmi sono già dietro di me, a pochi passi dall’inizio della salita, tra tornanti e cespugli di mirto. L’arco all’ingresso del sito è un varco spazio-tempo, il finis terrae, oltrepassato il quale le ombre della salita ti si proiettano dentro, conficcandosi come spine. Si avvertono le presenze, i dolori, le sofferenze, i patimenti; e al contempo si è spettatori del nulla, di un vuoto che regna dal 1986, anno in cui la colonia fu dismessa ed il carcere trasferito nella vicina isola di Gorgona.
Mi muovo con passo leggero, rispettoso verso mille anime. Mi sembra di essere un viaggiatore iper-spaziale, fluttuo fra le rovine, attraverso portali diroccati, confine fra mondi diametralmente opposti; sino al contrasto, alla stridente realtà capovolta. Immaginavo di trovare i fantasmi del passato; invero, mi si parano di fronte quelli di un oscuro presente e di un altrettanto imperscrutabile futuro. Sono scritte, invettive della modernità, retaggio di un popolo che ha perso ogni identità e che realmente ora naviga a vista, solcando un periglioso pelago.
Rimango attonito, ma decido di riportare in immagini questa cosmica epitome della nostra essenza blasfema, questo voler essere tutto ma risultare niente. Lo faccio chiedendo scusa e senza nascondere profonda vergogna.
Attraverso l’arco al contrario, ricompare l’iride della luce e mi sento un pò più vivo.
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