Se vuoi vedere l’Atlantico della West Coast che batte e ruggisce sulle scogliere, ti devi mettere in macchina verso Bosa in un giorno di vento d’estate. La strada è disegnata sul profilo di costa come uno scarabocchio a carboncino su un cartoncino Fabriano. Una moltitudine di curve aeree che ti aprono panorami immensi e selvaggi quanto basta a farti sentire Jack Kerouac, con il capello spettinato d’ordinanza.
Più che altro, se vuoi vedere Bosa, devi stare attento forte alle indicazioni nelle vicinanze, perché rischi di essere scaraventato a Bosa Marina e non capirci nulla, ma soprattutto immaginare che il paese sia quello e rimanerci deluso a stronco. Lì c’è il Trenino Verde, per carità, che sonnecchia con l’occhio-fanale a mezz’aria sul suo binario di arrivo e la ferrovia ha sempre quel suo fascino di altre epopee; ma Bosa è ben altro. Il déjà vu con Carloforte te lo senti addosso: colori dappertutto, scalette, vicoli stretti, vecchi mestieri e profumo di cucina. Arrivi dal Ponte Vecchio sul Temo e la vista da lì sopra è cinema puro: le facciate delle antiche botteghe allineate sull’argine in primo piano e, fuori fuoco sullo sfondo, un mosaico di casette adagiate sul pendio che va su veloce, sino al castello-volante prima del cielo blu cobalto.
Bosa vuole essere percorsa e scoperta metro dopo metro, vuole mostrarti tutti i suoi particolari: dalle biciclette appese al balcone tra le nasse, alle vecchie latte dipinte a mo’ di portafiori, con tanto di vessillo regionale; dal vecchio orologio monumentale del Corso, alle insegne dei vecchi mestieri; fino ad arrivare, con il fiato un po’ corto, alla rocca, mimetizzata fra gli ulivi e le enormi pale di fichi d’india secolari.
L’ora del pranzo si manifesta nella sua sacralità in una trattoria nascosta in un viottolo che riporta a Bosa Marina. Ti fermi perché c’è la verandina in legno con ombreggiatura fresca di fronda, la tovaglia che profuma di bucato, il vinello frizzante con i riflessi dorati in controluce e la fritturina croccante di calamari o paranza. Intorno, un silenzio surreale. Che meraviglia.
Il ritorno a casa ha una dimensione areonautica: con il fruscio del vento sulla carlinga e il sole calante dritto in faccia, sembra più di essere in un Fokker della Prima Guerra Mondiale che in un automobile. E via, in balia delle correnti, con la cuffia in cuoio e gli occhialoni, sui sali-scendi della linea di costa ad aggiustare la rotta con la cloche, sino alla planata ad Alghero.